Karen Blixen. La mia Africa




Karen Blixen, La mia Africa

Pubblicazione originale : 1937, Londra, African Pastorale o Out of Africa
Prima pubblicazione italiana: 1959, Feltrinelli, Milano
Edizione letta: 2007, Feltrinelli, Milano

La mia Africa non è un vero romanzo. È più quello che suggerisce il titolo italiano: l'Africa dell'autrice, narrata attraverso i ricordi, e come ogni rievocazione di ricordi è sconnesso, non ha un filo temporale, raramente un filo logico. Si tratta della narrazione di luoghi, eventi, persone che hanno popolato la vita dell'autrice negli anni in cui ha gestito una piantagione di caffè in Africa, in una zona pessima per quel tipo di coltivazione.
Nella prima parte ella rievoca la sua fattoria, sugli altipiani Ngong, più ancora che nelle costruzioni, nel magnifico ambiente che l'ha circondata per quasi quindici anni. Passa poi a raccontare di alcune persone che popolavano la sua fattoria, primo fra tutti il piccolo Kamante, indigeno di cui era difficile stabilire l'età perché il suo sguardo era già vecchio, stanco, e che lei cerca di curare per delle piaghe alle gambe e poi prenderà in casa, insegnandogli a fare il cuoco. Kamante parla poco, ma ogni volta ha la capacità di stupirla. Come una notte in cui la sveglia dicendole che sta arrivando il Signore, mentre è solo un incendio.
Ogni rievocazione, ogni aneddoto, è intervallato da digressioni sul paesaggio o sugli usi e costumi delle popolazioni con cui è entrata in contatto: i regali Masai, i volenterosi ma fatalisti Kikiyu, i Somali. Dopo Kamante, l'autrice si dilunga in modo consistente su un vecchio danese suo ospite, marinaio e avventuriero ormai cieco e malato, che le chiede ospitalità e che vivrà da lei sino alla morte: egli parla di sé in terza persona, chiamandosi “Il vecchio Knudsen” e ogni volta rivive nuove avventurose gesta della sua vita. La prima parte si conclude con il breve racconto di quando, sottratta una piccolissima gazzella dalle grinfie dei ragazzini che volevano venderla al miglior offerente, se la tiene in casa, finché lei non fugge, per poi tornare a mangiare prima col compagno, poi con i cuccioli. Il suo nome è Lulu e in casa riusciva ad avere la meglio su tutti, persino sui cani. Ma poi il tempo di andare è giunto anche per lei.
Nella seconda parte, in mezzo a grandi digressioni, si racconta di un brutto incidente avvenuto alla fattoria: un ragazzino ha sparato con la carabina del padrone pensando, sembra, che non fosse carica, e ha ucciso un amico e ferito gravemente un altro. Con crudezza Karen Blixen ci fa vivere momento per momento la scoperta dei corpi dei bambini e la corsa verso la missione più vicina. In seguito come capo della fattoria e punto di riferimento degli indigeni che per lei lavorano, è costretta a partecipare ad un Kyama, una sorta di processo. Gli africani più che altro giudicano a quanto ammonta la perdita subita e come deve essere ripagata da chi ha imposto la perdita o dai suoi parenti: un processo lento che richiede grande diplomazia. Sul ragazzo morto, l'accordo si trova abbastanza in fretta anche se poi si presentano dall'antica tribù del padre reclamando il bambino come loro e lei è costretta a rivolgersi alle autorità: tramite un semplice resoconto che ella stenderà a nome del padre adottivo del piccolo, egli potrà ottenere il riconoscimento della paternità, ma non solo: per lui diverrà un grandissimo tesoro, come se la sua storia fosse divenuta reale perché non più affidata alla labilità della memoria. Per il bambino ferito la situazione si fa più complessa: la nonna pare sia una strega e pur di ottenere quello che vuole sembra che stia accecando con la magia le mucche del padre dell'assassino. L'autrice risolverà facendo intervenire il loro capo, Kinanjui.
Nella terza parte ogni capitolo è dedicato ad un ospite della fattoria. Il primo “ospite” che la Blixen ci presenta sono le Ngomas, le danze tipiche degli indigeni Kikiyu. Ella le descrive a pennellate vivide, portandoci al centro del cerchio della danza, in mezzo ai tafferugli creati in occasione dell'arrivo tra loro di alcuni Masai Le Ngomas saranno poi proibite, perché ritenute troppo poco pudiche.
Un capitolo fondamentale per capire il parere di lettura è quello sulle ragazze somale che andarono a vivere alla fattoria, seguendo la moglie del suo attendente, Farah. È difatti usanza che i primi mesi dal matrimonio, se il marito non può vivere in casa della moglie, ella avrà dietro le donne di famiglia. L'autrice ha un'evidente fascinazione per queste donne cresciute per imporsi con i pochi mezzi loro concessi sugli uomini. Bellezza, vestiario, movimenti: tutto è studiato fin da quando esse sono giovanissime. La descrizione che fa della cultura somala è vivida e provoca fascinazione: non tralascia i difetti, come la tendenza alle liti protratte all'infinito, ma si perde pure in mille straordinari dettagli. Dai loro abiti, al portamento, all'unione stretta di queste donne che non possono essere viste da uomini e si appoggiano l'una all'altra. Umani, eleganti, acculturati a modo loro, fedeli: è questo il ritratto che esce forte dalle pagine.
Tra i visitatori della fattoria, vi fu pure un giovane cameriere svedese, Emmanuelson, che l'autrice aveva conosciuto i primi tempi quando ancora viveva in albergo. Egli si presenta alla fattoria, fuggiasco e senza soldi. È un attore, non si capisce in che guaio si è infilato, cerca solo un momento di comprensione ed un pubblico, forse l'ultimo.
Berkeley Cole e Denys Finch-Hatton sono gli unici due europei di cui la Blixen parla diffusamente nel libro. Entrambi inglesi, entrambi ammaliati dall'Africa, divengono presto suoi grandi amici e faranno tappa a casa sua. Denys vi si installerà a vivere, tra un safari e l'altro. Dalle pagine fitte di aneddoti trapela l'ammirazione dell'autrice per questi due uomini che definisce “pionieri”, colti, intelligenti, pieni di vita. Berkeley morirà per problemi di cuore, rifiutandosi di stare a letto e preferendo piuttosto morire giovane, nel tratto tra la casa e la macchina, in movimento sino all'ultimo istante. Denys è un compagno di viaggi e di avventure. È lui che ascolta sempre le sue favole come solo sanno fare gli indigeni, è lui che le regalò un grammofono per riempire di musica il vuoto della sua casa, è con lui che uccide i primi leoni. Ed è assieme a lui che fanno lunghi voli sulle sconfinate pianure africane. Uno dei pezzi più belli del libro, che forse più centra con poche battute di dialogo la mentalità africana, ha proprio a che fare con i loro voli. Un giorno, di ritorno da un lungo volo, li avvicina un vecchio indigeno Kikiyu che meravigliato dice loro che sono andati molto in alto, l'aeroplano non si sentiva né vedeva più.
Poi, chiede loro se hanno visto Dio. Quando chiede loro se pensano di arrivare abbastanza in alto da vederlo, un giorno, ed entrambi gli rispondono che non lo sanno, il vecchio replica dicendo “Allora non capisco perché continuiate a volare”.
La quarta parte è composta tutta da piccoli spezzoni di ricordi, come appunti su un taccuino. Dalla favola che le narravano da piccola, alla storia del suo cuoco Esa, che pur di non andare in guerra tornò dalla precedente padrona che lo tiranneggiava, all'esperienza della lettura a Farah de “Il mercante di Venezia”, a riflessioni su animali africani in generale, e in particolare della fattoria, alla rievocazione di un triste fatto di cronaca al racconto della morte di Esa, avvelenato dalla seconda, giovane moglie che mai pagò per il fatto perché per i maomettani delle azioni di una donna è responsabile solo il marito.
L'ultima parte, la più struggente, è l'addio dell'autrice all'Africa.
La fattoria naviga in cattive acque da anni, finché non c'è più nulla da fare, deve essere venduta. Si avvia allora un lunghissimo addio ad ogni luogo, animale, persona che per lei ha rappresentato qualcosa in Africa. Come un doloroso segno, muoiono in quel periodo il capo Kinanjui prima, e Denys in un incidente col suo aereo poi. Se potrà seppellire l'amico dove egli aveva chiesto, sulle colline di fronte alla pianura ad abbracciare tutto con un solo sguardo, non potrà invece fare nulla per Kinanjui: la fattoria non le appartiene più, non può mettersi contro nessuno in Africa per non rischiare ulteriori ritorsioni.
L'addio definitivo è lento e doloroso: dapprima ogni oggetto andrà venduto, poi andranno via gli animali, donati ad amici, infine i “suoi” indigeni, per i quali ha lottato sino alla fine, per permettere loro di avere un posto in una riserva. I Kikiyu vogliono salutarla con una Ngoma degli anziani, evento rarissimo e spettacolare: ma viene fermata da un'ordinanza del Protettorato. È ora di andare.
L'ultimo a cui dire addio è l'inseparabile Farah, alla stazione. E poi, ormai distanti e quasi indistinguibili, alle colline del Ngong.

È difficile individuare un motivo preciso per cui questo bellissimo libro poteva non passare la censura. Sicuramente le parti sui somali erano un problema; in tempi in cui l'Italia era in Somalia non si poteva di certo lasciar circolare scritti in cui i somali venivano tanto rivalutati. Molto probabilmente ciò che si è temuto nel pubblicare questo romanzo, è il rapporto tra uomo occidentale e sudafricano/orientale: nella Blixen non c'è nemmeno un accenno ad un'ipotetica superiorità di una delle parti. Ogni difetto degli indigeni è quasi sempre visto come una mancanza degli occidentali, che non riescono a cogliere, a sintonizzarsi con questi spiriti per i quali tempo e spazio hanno valori completamente diversi dai nostri.
Sono tutte figure nobili, affascinanti, toccanti, nonostante le difficoltà che possiamo avere nel decifrarle.

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